martedì 16 dicembre 2008

Progressisti elitari


Ricordate la frase riportata proprio sotto la testata de «Il Manifesto»: "Un passo avanti e uno a sinistra"? Ogni volta, leggendola, mi trattenevo a fatica dal commentare ad alta voce: «ehi, gente, il mondo è rotondo", a furia di passetti avanti e a sinistra spunteremo all'estrema destra!» Per carità di patria, comunque, commentavo soltanto con il mio abituale compagno di discussioni e la frase è rimasta nei nostri annali come esempio di assurdità benintenzionata. Ma io sospettavo che non fosse soltanto questo.
Negli anni, la faccenda dei passi avanti e a sinistra mi è tornata in mente molte volte, e sempre più spesso negli ultimi mesi, perché la nostra «sinistra» (le virgolette sono assolutamente necessarie, ormai) mostra - oltre al tocco di Mida al contrario, anche una preoccupante propensione a imboccare strade contorte e lunghissime per poi mancare clamorosamente l'obiettivo. Ho ripensato alla frase anche ultimamente, riflettendo sulle condizioni della scuola pubblica da utente (invece che a da docente, come faccio di solito), un punto di vista sacrosanto al quale io quasi sempre rinuncio autocensurandomi, in nome della solidarietà di categoria.
«'O pesce fete d' 'a capa», dice a ragione il noto proverbio napoletano, e nessuno meglio di un docente sa quanta responsabilità abbiano avuto i vari ministri dei due schieramenti che si sono succeduti negli ultimi anni. Ma anche chi sta in basso, docenti, famiglie e studenti, ha le sue (minori) responsabilità se non si chiede «dove stiamo andando».
Mia figlia frequenta un noto liceo torinese, che ogni anno offre agli alunni opportunità culturali molto valide settimane a tema, scambi, stage, visite culturali di più giorni. Il corpo docente è nell'insieme valido, anche se un "collega" come me è portato a notare piccole incongruenze, illogicità, carenze organizzative che le famiglie che svolgono altri lavori non vedono.
In conclusione potrei dichiararmi soddisfatta della qualità media della didattica, anche perché so bene che la perfezione è perseguibile ma pur sempre irraggiungibile.
Però…
Mi pare di ricordare che negli anni lontani in cui sono stata alunna - alle superiori prima e all'università poi - immaginavo (e con me molti coetanei) le parole SCUOLA PUBBLICA scritte proprio così, maiuscole. Un bene da migliorare, da cambiare radicalmente magari, ma da difendere. E insieme a noi, scrivevano SCUOLA PUBBLICA a lettere maiuscole molti genitori, docenti e cittadini. Allora, noi studenti classificavamo i docenti come "di destra", "di sinistra"; spesso le nostre classificazioni definizioni erano sommarie - per non dire stupide - e poco avevano a che fare con la qualità dell'insegnamento: ricordo perfettamente la docente di italiano «moderata» e legalitaria dalla quale ho imparato gran parte di ciò che so di letteratura italiana e ho ricevuto apprezzabili esempi di correttezza e di etica del lavoro, e ricordo il professore di filosofia "compagno" capace soltanto di spiegare - male - il pensiero di Marx e quello di Freud, sua vera passione; un docente che in definitiva mi ha insegnato solamente a diffidare delle facili etichette.
Al di là dei punti di vista e degli obiettivi, però, una cosa era ben chiara nella mente di tutti quelli che potremmo definire sommariamente progressisti: la scuola pubblica doveva essere per tutti. SENZA distinzioni, senza preclusioni di censo.

Sono felice di poter dire che nel liceo di mia figlia ci sono molti professori progressisti: gente che ha sfilato con gli allievi alle ultime manifestazioni, che ha fatto dichiarazioni di fuoco in consiglio di classe e in aula. Gente pronta a difendere la scuola dallo sfascio perseguito dall'attuale governo…
Gente che nei tre anni in cui la mia famiglia è utente della scuola - e a maggior ragione adesso, in questi mesi di crisi - non si è mai posta chiaramente il problema del costo/famiglia di tutte le belle iniziative attuate e progettate.
Gente, che evidentemente ignora il fatto che esistano ancora - o di nuovo, fate voi - famiglie costrette a scegliere se mandare il figlio all'estero a perfezionare la seconda o terza lingua o offrirgli la possibilità di seguire le proprie inclinazioni artistiche, o famiglie che devono riflettere qualche giorno prima di scegliere di mandare il figlio alla settimana bianca.
La dimostrazione più chiara di insipienza è stata data da un professore che ai miei tempi noi avremmo definito (sommariamente ma a ragione!) integralista e che - per scoprire che i tempi sono brutti ha avuto bisogno di interpellare un alunno in pubblico, in aula: "Ma tu non vieni perché non vuoi o perché non puoi? Ah, non puoi. Ma non puoi perché i tuoi non vogliono!?.
Un cittadino a questo punto avrebbe perso la pazienza e sarebbe sbottato: "Ma quanto vi ci vuole per capire che i tempi sono brutti?"
Ma io non sono un semplice cittadino, sono un docente. Sono un utente. E sono ancora la studentessa di un tempo. E non posso nascondermi dietro la solita frase trita: «certi genitori non vorrebbero sborsare soldi per i libri ma poi mandano i ragazzi tutti griffati e con l'ultimo modello di cellulare». No, non è proprio questo il caso dei compagni di mia figlia. Nella scuola dell'obbligo, dove io lavoro, esistono fondi stanziati apposta dal Consiglio di Istituto per finanziare le uscite degli alunni che non possono permettersi di affrontare la spesa. Certo, è scuola dell'obbligo, deve gravare il meno possibile sulle famiglie, ma il diritto all'istruzione non si ferma con la licenza media.
Così mi sono ritrovata a chiedermi che cosa sia diventata quella coppia di parole maiuscole: scuola (per ora) di stato? Una scuola fra le tante (confessionali o semplicemente private) finanziate con i nostri soldi?
La colpa non è del liceo di mia figlia, né dei suoi docenti( che in molti casi stimo e apprezzo per il loro lavoro). La colpa è del fatto che ci siamo persi le maiuscole per strada. Come molte altre cose. E a furia di fare passi a caso, magari credendo in buona fede di marciare in avanti (se non proprio a sinistra), ci siamo dimenticati qualcosa di fondamentale. La SCUOLA PUBBLICA deve essere per tutti, o non è. Non è PUBBLICA, sta per diventare qualcos'altro. E noi «progressisti» stiamo per diventare dei perdenti.
Dovremmo tornare a pensarlo, noi docenti, i Consigli d'Istituto, gli alunni e le famiglie che invece, probabilmente, considerano le loro difficoltà un fallimento personale e non del Paese.
Dovremmo dircelo ad alta voce, smettere di ritenere i guai e le gravi carenze di questo Paese affare di ognuno di noi e non "affari nostri".

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